Italiano English Português Français

Porta Palazzo, estate senza frontiere a “Felicizia”

Date 12-07-2019

 

Il racconto di un “viaggio” una domenica all’Arsenale della Pace dove i bambini di diverse nazionalità, condizioni sociali e storie alle spalle crescono insieme come unica famiglia: dalle loro testimonianze emerge l’urgenza di abbandonare le politiche di respingimento degli immigrati per un’Italia senza muri

clicca per PDF


Porta Palazzo, estate senza frontiere a “Felicizia” di Stefano Garzaro 

Alcune domeniche fa mi sono imbucato nella Festa dei bambini del Sermig, una delle attività che prosperano nell’Arsenale della pace, l’impianto di Borgo Dora strappato alle armi da Ernesto Olivero e dai suoi volontari nel 1983, e trasformato in una cittadella di giustizia e solidarietà.
Nel grande cortile, come in un oratorio dei vecchi tempi, c’è il baccano di tutti i giorni: il calciobalilla, le gare con le microbici, gli ostinati del pallone.
Chi cerca tranquillità sceglie il vicino chiostro con i ruscelletti, le siepi fiorite, gli aceri rossi.
Non rimango a lungo spettatore, perché i bambini vogliono sapere di chi sono amico, se so aggiustare una bicicletta, se mi va di arbitrare. Mi sfidano a calcetto e mi tocca perdere, ma soltanto perché sono arrugginito. Alla fine ottengo anch’io il rango di amico, e nessuno fra i molti visi colorati mi chiede come mai ho la pelle arancione.

Questa domenica è particolare, perché è la festa a cui sono invitati i genitori, gli amici e i curiosi come me. Dopo il pranzo ci sarà lo spettacolo all’insegna di «Felicizia», un termine che chiarisce anche ai più piccoli che cos’è il Sermig. Nel caso non lo comprendessi, Amani s’incarica di spiegarmelo: «Felicizia non è una strada, un parcogiochi o una città. Felicizia è un paese infinito, perché c’è spazio per tutti i bambini. A Felicizia non c’è odio, violenza o roba del genere, si va là per giocare, fare amicizia con gli altri e per trasformare la rabbia in felicità. Felicizia è piena di bambini allegri, di belle cose da fare, di libri da leggere».Prince, che viene dalla Nigeria, è ancora più diretto: «Vado al Sermig da moltissimo tempo», che per un bimbo di una decina d’anni significa una vita intera. Continua: «Il Sermig è un luogo bellissimo: giochiamo insieme, studiamo insieme e persino mangiamo tutti insieme. Vedrai quante cose meravigliose ci sono, non te ne vorrai più andare».

Il bimbo ha evocato il pranzo. È ora di invadere la grande sala dove le famiglie hanno riversato decine di vassoi, con i cibi che amano di più. Nella folla di tavoli, scelgo quello delle mamme marocchine. Discutiamo sulla preparazione del cous cous e loro mi guardano con compassione: il cous cous che cucino io non è che un minestrone con la semola. Mi insegnano la vera ricetta, così complicata da stordirmi; se ne rendono conto e allora mi incoraggiano: «Per imparare vieni un giorno da noi, che ti insegniamo bene».
Un tavolo accanto al nostro è già vuoto: era occupato da ragazzini africani ostinati del pallone: hanno mangiato in pochi minuti e sono già fuori a tirar calci. Non si staccano da un’enorme coppa dorata, un trofeo vinto a un torneo cittadino di pulcini.

Marco Grossetti è uno dei responsabili della Piazza, che comprende il doposcuola per i bambini di Porta Palazzo. Marco spiega la formula di Felicizia: «I grandi vivono a fianco senza conoscersi, perso ognuno in una profonda solitudine, vuota di lavoro e quindi di soldi e di vita. I bambini invece si incontrano naturalmente a scuola, riempiono aule che altrimenti sarebbero vuote e inutili. Non sono cittadini italiani, anche se sono nati e cresciuti qui. Il colore della pelle, il vestito, la religione sono etichette dei grandi, che a loro non servono: bianco, giallo o nero non significa niente per loro, almeno per qualche anno ancora».

La Torino postindustriale considera Porta Palazzo un’opportunità turistica, un’attrazione multietnica ricca di colore e di soggetti per foto da concorso. Marco analizza invece una realtà meno morbida: «Per mamma e papà dei nostri bambini, Porta Palazzo è il ghetto in cui sono rimasti prigionieri. L’Arsenale della Pace è una vecchia fabbrica d’armi dentro il ghetto. Gli stessi bambini che si incontrano a scuola vengono qui a chiedere, a modo loro, un po’ di affetto e un po’ di amore. C’è un muro invisibile che li divide dagli altri bambini della loro stessa città: una discriminazione fatta di opportunità che loro non hanno, di famiglie che vivono senza acqua calda, senza riscaldamento o senza lavatrice, di case in cui si litiga. I bambini non sanno di essere circondati da muri di paura e di odio, che non puoi oltrepassare neanche se piangi, se hai fame, se hai freddo».

Qual è il lasciapassare per entrare nel cortile dei bambini? Il termine doganale non piace a Marco: «La lingua italiana è il punto di contatto che rende possibile l’incontro, la condizione perché le diversità si trasformino in ricchezza. Giorgia balla con una bambina marrone come il cioccolato, non si stacca un attimo dalla sua compagna musulmana e mangia a fianco della sua amica cinese, scambiando la sua pasta al pomodoro con due involtini primavera. Amicizia per loro è una parola sacra, magica: l’amica cinese di Giorgia non potrà mai essere una brutta cinese, è sua amica. E la sua amica musulmana non potrà mai essere un’infedele, perché è sua amica. Amicizia è la loro bussola, il rifugio per non avere paura, per non sentirsi diversi. I ragazzi più grandi si prendono cura dei più piccoli come se fossero fratelli o sorelle. Perché non sono più cinesi, arabi, romeni, italiani. Sono persone. Bambini. Anime. Che dentro hanno lo stesso colore. La vecchia fabbrica di armi lavora a pieno ritmo e adesso produce amicizia».

A dodici anni, Fatima ha già una visione del mondo realistica: «Perché considerare straniera una bambina quando ha pronunciato le sue prime parole in italiano? Una bambina che dall’infanzia si sente parte dell’Italia? Io riconosco un cittadino dall’amore che ha per il suo paese, dove è nato e cresciuto».
Fatima continua: «Vorrei essere cittadina italiana perché sono nata qui. Vorrei avere gli stessi diritti degli altri bambini, per non essere diversa e esclusa. Ma anche senza cittadinanza, mi sento lo stesso italiana».
Marco Grossetti ha un visione del mondo più larga di chi basa la sicurezza nelle telecamere e nei sistemi d’allarme: «I bambini qui arrivano correndo, come se avessero fretta di trovarsi insieme. L’unica cosa che li fa morire di paura è restare senza nessuno. Si sentono protetti se possono stringere una mano, abbracciare una persona, se altri occhi guardano i loro occhi. Appartengono tutti allo stesso sogno. Questa è la loro sicurezza, la loro tranquillità, la loro pace».

Lo spettacolo del pomeriggio, nel grande teatro dell’Università del dialogo, è tecnicamente perfetto, con gli stacchi giusti, i colori miscelati correttamente, le musiche trascinanti. Quante settimane di lavoro sono occorse ai bambini, agli animatori, ai volontari del servizio civile per prepararlo?
Passeggio fra le salette dove le ragazzine cinesi provano le danze in costume con il ventaglio, le stanze con gli armadi che conservano decine di pattini a rotelle, i corridoi con le grandi foto che testimoniano i lavori di trasformazione dell’Arsenale militare in un rifugio di pace. Sembra di essere nel paese di Utopia. Sappiamo, però, che là fuori c’è il mondo vero, che classifica le persone in ranghi.

Emmanuel spiega sicuro: «Noi siamo bambini del Sermig, veniamo da paesi diversi ma ci vogliamo bene. Al Sermig non usiamo le botte, perché chi sbaglia chiede scusa. Quando sono entrato qui, ho visto un bambino e gli ho chiesto come si chiamava, lui mi ha detto Prince e abbiamo giocato insieme e poi siamo diventati amici per la pelle. Poi ho conosciuto Abou e abbiamo giocato insieme e siamo diventati tre amici per la pelle. E dopo ho conosciuto Maria Chiara, siamo diversi, ma ci vogliamo bene comunque».

E se il mondo vero fosse anche questo?

di Stefano Garzaro 

 

 

O site utiliza cookies para fornecer serviços que melhoram a experiência de navegação dos usuários. Como usamos cookies

Ok