Abbracciamoci!
Date 04-05-2025
Gaza dopo la tregua: una distesa senza fine di macerie, un varco polveroso, persone come formiche sulla via del nulla. Gli Stati Uniti di Trump: una fila di immigrati illegali in catene, in procinto di salire a bordo di un aereo militare che li riporterà in Guatemala. Libia e Italia: un criminale di guerra, torturatore di migranti, ricercato dalla Corte internazionale dell’Aja. Prima arrestato a Torino, poi rilasciato per un cavillo, infine rimpatriato a Tripoli con un volo dei servizi italiani e accolto con tutti gli onori dai suoi sodali.
Tre immagini, tre istantanee per descrivere questo inizio anno. Situazioni, luoghi, contesti diversi. Eppure, un minimo comun denominatore c’è, ovvero la censura più o meno velata del dolore innocente. Ormai è una prassi, non se ne parla più di tanto, perché quel dolore è scomodo, ci dà fastidio, non sappiamo interpretarlo e forse, nemmeno ci interessa. Ma quel dolore esiste, grida, ci inchioda, trasuda da quelle stesse immagini, a patto che le si voglia guardare, non solo vedere.
Guardare nella distruzione di Gaza le decine di migliaia di morti, di famiglie andate in frantumi, di progetti di vita condannati a non esprimersi in alcun modo.
Guardare il passato di chi viene rispedito a casa come un pacco, i sogni, le battaglie, la sofferenza che alimenta ogni speranza di felicità.
Guardare le colpe che possono nascondersi dietro un uomo ap-parentemente immacolato, i suoi crimini, i pianti delle sue vittime, le vite che ha spento per sempre.
Guardare quel dolore è difficile, ma necessario per non abituarsi al male, per indignarsi in modo sano, per non sentirsi impotenti. Guardare quel dolore è una conversione del cuore e della mente, un piccolo miracolo che può mettere in crisi chi sa solo girarsi dall’altra parte. Guardare quel dolore è l’unico seme di speranza, proprio lì, dove la speranza è stata soffocata. Ma come si fa? Ce lo insegnano i bambini. Uno spavento, un momento di tristezza, un attimo di sconforto: i piccoli non hanno sovrastrutture, piangono, a volte si disperano, non sembrano trovare pace. Ma basta poco per calmarli, nessuna parola, quasi sempre un abbraccio, ancora meglio se viene da una figura di riferimento. Quanti pianti ha curato nella storia dell’umanità la vicinanza!
Dovremmo fare uguale nella follia di questi tempi. Trovare il modo anche simbolico di abbracciarsi, di permettere ad ognuno di condividere il proprio dolore, che sia di una persona, di un popolo, di una Nazione, del mondo intero. Servono spazi, narrazioni, azioni concrete perché la vicinanza di cui il cuore ha bisogno sappia bucare il muro dell’indifferenza. Abbracciamoci! Ripartiamo da qui!
Matteo Spicuglia
NP febbraio 2025