9° Giornata del Perdono del Sermig
Date 18-05-2023
Il perdono e la riconciliazione come strumenti per ricucire i rapporti personali e la società nel suo insieme. È il messaggio della “Giornata del Perdono” promossa ogni anno dal Sermig di Torino. Un’occasione di riflessione proposta per la prima volta nel 2015 con la visita del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, all’Arsenale della Pace.
Quest’anno il confronto, organizzato dall’Università del Dialogo Sermig, è ruotato intorno al tema della giustizia e ha visto la partecipazione martedì 16 maggio di padre Francesco Occhetta, gesuita e politologo, presente anche in libreria in queste settimane con il suo ultimo libro, “Le radici della giustizia”. Nel libro padre Occhetta riflette su come il rapporto tra la sicurezza e la libertà individuale, la volontà della presa in carico delle vittime e la riparazione possibile del danno da parte dei responsabili siano spunti concreti per ricomporre i conflitti personali e sociali.
In attesa di pubblicare un ampio resoconto della serata sul prossimo numero di NP Nuovo Progetto, il mensile del Sermig, ecco alcuni passaggi dell’intervento dell’ospite.
Non c’è pace senza perdono, non c’è perdono senza giustizia. Nello spazio pubblico ci dividiamo sempre tra giustizialisti e permissivisti, finché l’ingiustizia non ci tocca nella carne, personalmente o nelle persone che amiamo. Una mia amica, Gemma Calabresi, che è stata recentemente anche vostra ospiti, ci insegna a non identificare la persona con il gesto criminale che ha compiuto. Questo non significa che non vi debba essere pena, ma un modo diverso di affrontare queste situazioni.
Un altro insegnamento è quello di iniziare un percorso per uscire dal dolore che ci blocca e incatena. Non essere più “solo” vittime. La strada che è indico è quella della giustizia riparativa. Se non cambiamo la nostra visione comune di giustizia rischiamo di cadere preda della violenza. La strada è riparare, riconoscendo il dolore delle vittime e la responsabilità dei criminali, come ci insegna la cultura giapponese con la pratica del Kintsugi, antica tecnica e filosofia di derivazione zen - il termine kintsugi deriva dall'unione di Kin (oro) e Tsugi (ricongiungere), che letteralmente consiste nel riparare con l'oro gli oggetti rotti, riunendo i frammenti di ceramica e colmando le crepe con resina laccata e polvere d'oro –.
Proprio il dolore delle vittime non è riconosciuto dal nostro ordinamento. Riportare al centro il dolore della vittima e di parlare della propria sofferenza non vuole dire scegliere la via della vendetta, ma diventare occasione di incontro con il reo. Non per diminuire la pena, ma per viverla in modo nuovo. Il carcere non è una discarica sociale, dobbiamo cambiare paradigma se oltre il 60% degli ex carcerati vi ritorna per recidiva. La giustizia oggi come oggi rischia di disgregare il tessuto sociale. Nelson Mandela ha operato una vera rivoluzione con la commissione per la verità e giustizia per ricostruire l’unità del popolo sudafricano. L’idea portante è far parlare le vittime e riconoscere le colpe dei carnefici. I rei che accettano di dichiarare la propria responsabilità davanti alle proprie vittime hanno potuto ottenere l’amnistia presidenziale.
Portiamo chi ha sbagliato a fare esperienze in cui sia possibile distinguere il bene dal male. Prendiamo il caso di una direttrice di un carcere indiano che ha cambiato l’ambiente violento attraverso tre azioni: chiamando per nome i detenuti (familiarità), ha chiesto di esprimere le loro idee per risolvere i problemi del carcere, ha proposto loro dei percorsi di meditazione. Le recidive sono cadute dal 90% al 17%.
Il carcere è un mondo: Voltaire diceva che il grado della civiltà di un popolo si vede dalla condizione delle carceri. La situazione italiana è molto difficile, anche se certamente non paragonabile ad altri paesi: ci vogliono più società, più formazione, più lavoro. Però bisogna costruire una nuova cultura, ed è la strada che ha scelto il papa. La giustizia come è comunemente intesa oggi non può che portare alla violenza e alla contrapposizione senza fine. La giustizia riparativa è la strada attraverso l’incontro e la mediazione per smorzare paure, sofferenze, fatiche.
La giustizia non è solo quella della spada, ma quella dell’ago e del filo che cuciono i tessuti spezzati: operando così, la giustizia non sarà forza e vendetta, ma diventa un concreto atto di amore. Fare atti di giustizia ci rendono giusti e capaci di amore.
Redazione Unidialogo
Foto: Marco Maccarelli / Sermig
Andrea Pellegrini / Sermig