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Claudio Monge all'Università del Dialogo 2019

Date 13-11-2019

por Renato Bonomo

Ė TEMPO DI INCONTRO
Che senso ha parlare di dialogo e incontro in un mondo segnato da guerre e divisioni? È partita da questa domanda la riflessione di padre Claudio Monge, domenicano, responsabile del Centro per il dialogo interreligioso e culturale di Istanbul, cui è seguito il dialogo con i giovani partecipanti al terzo incontro della nuova sessione dell’Università del Dialogo Sermig presso l’Arsenale della Pace. Un confronto a tutto campo che ha spaziato dalla Turchia alla Siria, passando per la testimonianza dei 19 martiri dell’Algeria recentemente beatificati. Originario di Piasco, in provincia di Cuneo, Claudio Monge è professore di Teologia delle religioni all’Università di Friburgo e alla Facoltà teologica di Bologna. Nell’ultima delle sue numerose pubblicazioni, “Il martirio dell’ospitalità. La testimonianza di Christian de Chergé e Pierre Claverie” (Ed. Dehoniane) scritta insieme a Gilles Routhier, padre Claudio riassume appunto la storia di questi uomini “straordinari nella loro ordinarietà”. Perché abbinare ospitalità a martirio? Sembrerebbe che non stiano bene insieme ma ricordiamoci del significato autentico della parola martirio, che vuol dire testimonianza. Il vero martire è colui che vive l’ospitalità, non colui che muore. La morte può essere una estrema conseguenza, spesso non voluta, della volontà di vivere in pienezza la testimonianza. L’ospitalità oggi è una parola fuori moda, che irrita, rimane però una testimonianza radicale per questo mondo così diviso, arrabbiato.

È martirio, perché esiste il rischio che l’altro non voglia ricevere l’ospitalità, però non è dal successo che si valuta l’ospitalità, ma dal viverla. Per un cristiano non è la vita ad essere sacra ma il suo dono; un cristiano non desidera la morte, ama il mondo in maniera così appassionata da volersi donare pienamente per questo mondo. Una volta pensavamo che i cristiani dovessero disprezzare il mondo, la vita di Christian de Chergé e di Pierre Claverie e degli altri martiri dimostra che Gesù incarnandosi ha scelto il mondo. Se lo ha fatto Lui, anche noi dobbiamo rimanere là dove siamo con i fratelli. Il dialogo autentico è legato all’idea di disarmare se stessi. Il modello di riferimento è Cristo. Per i martiri dell’Algeria questo ha comportato un intenso lavoro spirituale: lasciare la posizione alta, paternalista, di chi ha solo da offrire, da comandare, per assumere la posizione bassa dello straniero domiciliato, di essere bisognoso di accoglienza, per farsi perdonare il passato con cui è identificato. Gesù bussa disarmato alla nostra porta, come è scritto nell’Apocalisse di Giovanni, per farsi accogliere. Anche noi dobbiamo farci disarmare, magari in maniera ruvida, per farci accogliere.

La pace non si costruisce per decreto, ci sono sofferenze da lenire. Spesso chi ha subito grandi sofferenze pensa di non avere nessuno che lo possa realmente capire. Il nostro compito è sforzarsi di restare accanto, di aiutare a rimarginare le ferite. Spesso i popoli fanno fatica ad uscire dalla propria memoria, non riescono a vivere il futuro. La memoria vera non dimentica ma apre al fatto che quello che ieri era nemico, oggi può diventare amico.

La memoria non può chiudere al futuro, deve però fasciare le fatiche e i drammi e aprirsi ai sogni. Quando penso al Medio Oriente e alla Turchia capisco di capirne molto poco, nonostante ci viva dentro da molti anni. Noi occidentali dobbiamo smettere di vedere il mondo secondo i nostri filtri. Dobbiamo imparare ad ascoltare gli altri, capire come pensano, che cosa vogliono. Dobbiamo superare il concetto di minoranza. Io mi sento una persona anche se appartengo ad un gruppo che è l’1% della popolazione. Quando mi chiedono come va il dialogo con il mondo turco, rispondo che dialogo con singole persone, non con il mondo in generale. Finché pensiamo ai blocchi siamo destinati a scontrarci, se pensiamo alle persone l’incontro è possibile. Bisogna entrare con le scarpe in mano nella vita degli altri, questo vale in Turchia come nelle nostre realtà quotidiane.
 



Foto: Renzo Bussio

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