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L’anello del sergente

Date 16-04-2024

por Renato Bonomo

Nel Museo nazionale dell’Internamento di Padova è conservato un anello molto particolare. Era appartenuto a Giacomo Chiappero, cuneese, classe 1917, sergente artigliere del Regio esercito impegnato nella Seconda guerra mondiale. Giacomo fu catturato ad Atene il 9 settembre 1943, il giorno successivo all’armistizio che poneva fine alla guerra italiana contro gli anglo-americani. Trasferito in Germania fu internato con il numero di matricola 03121 presso lo Stalag III D vicino a Berlino e costretto a lavorare in una fabbrica di munizioni, la Butzke-Werke AG. Proprio durante i lunghi mesi di prigionia e lavoro forzato, un compagno di detenzione forgiò per lui un anello, ricavandolo dai resti di un proiettile. Un’opera artigianale straordinaria – considerate le precarie condizioni in cui è stata prodotta – che riporta le iniziali finemente cesellate di Giacomo e che testimonia la volontà umana di non arrendersi all’abbruttimento della prigionia. Giacomo lo ha conservato con cura, anche dopo la sua liberazione.

La sua vicenda è una delle tante piccole storie che appartengono a quella grande tragedia che fu l’8 settembre 1943. In quella data venne reso pubblico l’armistizio con gli anglo-americani: per il nostro Paese iniziò una drammatica e dolorosa fase di confusione militare e politica. La fuga del re, il crollo delle istituzioni monarchiche e militari, la mancanza di ogni riferimento politico, l’occupazione nazista e il proseguimento dell’avanzata alleata. Tra le prime vittime di quella situazione assurda troviamo i militari del Regio esercito, che si trovarono letteralmente abbandonati in Italia e nei vari fronti esteri della Jugoslavia, Francia, Albania, Grecia e isole dell’Egeo, Polonia, Paesi baltici e Unione Sovietica. Alla deriva, senza ordini, a fianco dei nazisti, prima alleati ora nemici. In moltissimi, circa 800mila, si trovarono di fronte a un terribile dilemma: continuare a combattere con i tedeschi o, in caso contrario, essere considerati nemici del Reich, con tutte le conseguenze del caso.

Oltre 650mila soldati si rifiutarono di combattere con i nazisti, una cospicua minoranza decise addirittura di prendere le armi contro l’ex alleato. Come la divisione Acqui a Cefalonia: barbaramente uccisi a migliaia dai nazisti per rappresaglia, anche dopo la resa. La maggior parte dei soldati catturati venne invece trasferita in Germania e internata in campi di lavoro e concentramento. Per loro il Reich coniò la classificazione di internati militari italiani (IMI), un modo per privarli dello status di prigionieri di guerra e della supervisione della Croce Rossa. Divennero pertanto dei veri e propri schiavi di guerra, tenuti in vita per incrementare la produzione bellica. In diverse occasioni i tedeschi invitarono i soldati italiani a unirsi a loro o alle forze della collaborazionista Repubblica Sociale Italiana in cambio della libertà. Il fatto che in tantissimi rifiutarono è per alcuni storici una sorta di resistenza “disarmata”, pari a quella che attuarono i partigiani nelle zone occupate dai nazifascisti. Una resistenza che ha avuto un costo umano notevolissimo: tra i 40mila e i 50mila “lavoratori civili” (così gli IMI venivano chiamati nella RSI), morirono stremati per il lavoro nei campi nazisti.


Renato Bonomo
NP marzo 2024

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