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Maestra della vita

Date 17-07-2024

por Cesare Falletti

Vivere sotto una regola, per un religioso non è delegare a uno scritto o a una saggezza antica le scelte di vita che devono essere fatte. Ogni donna e ogni uomo adulto non deve rinunciare alla profonda libertà che il Cristo è venuto a portare all’umanità e delegare ad altri, fosse anche la persona la più saggia che conosce, le proprie scelte, tradendo la propria responsabilità. Ma neppure l’autonomia e l’indipendenza totali conducono alla sapienza di vita. La regola ha dunque il ruolo, riconosciuto in genere da una tradizione, di indicare i vari percorsi per vivere una vita saggia, giusta e onesta e, nel caso di una regola religiosa, per vivere il proprio rapporto con Dio secondo il modo di vita che si è scelto e al seguito dell’impulso interiore che lo Spirito santo dona a chiunque lo cerca. La regola di san Benedetto, in particolare, non è un codice né civile né penale, ma una guida che conduce per sentieri di vita, non sempre facili ed evidenti, ma la cui meta è «gustare giorni felici», e ciò significa vivere in una sola comunione con Dio Trinità e con gli uomini fratelli e sorelle con cui si convive regolarmente o con altri che intervengono occasionalmente nella vita di quanti si fanno discepoli di un maestro. Quasi tutti gli aspetti di una vita umana e comunitaria sono toccati in questa regola, che vuole essere un modo di attingere alla sapienza divina del Vangelo. Anche problemi molto moderni, ma già presenti nell’antichità, quali l’accoglienza del pellegrino, del profugo, del povero, non sono lasciati alla spontaneità di chi si trova a dover accogliere e quindi alla variazione delle lotte politiche, degli umori, ma ricevono una forte luce evangelica.

Infatti, ciò che deve dominare nel Monastero è la carità fraterna, che deve impregnare tutto, perché Dio è Amore e non lo si incontra nel timore, ma nella carità.

Uno dei capitoli in cui questo diventa più visibile è il discorso di Benedetto sul modo di accogliere chi bussa alla porta del monastero. La luce è data da una sentenza lapidaria: «Tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come Cristo, poiché un giorno egli ci dirà: “Ero forestiero e mi avete ospitato”». Non si par la di categorie di ospiti, ma la prima cosa di cui deve tenere conto il monaco è la presenza di Cristo in tutti coloro che si presentano e bussano alla porta.

L'ospite accolto come cristo entra immediatamente in un clima nuovo. Anche se l'affetto e l'amicizia possono già predisporre a un incontro accogliente, in colui che bussa alla porta si riconosce e si accoglie Cristo stesso, nell'ospite si riconosce quel Dio che ci accoglie tutti.

Possiamo quindi capire come la prima parola che viene notata sia: “carità”. Siamo in un clima divino; solo se la presenza di Dio è viva nel monastero questo può avvenire. La mondanità rischia di manifestarsi grandemente nell'accoglienza e il cadere nella trappola è facile. Abbiamo quindi già qui due cose importanti: il continuo riconoscere nell'altro la presenza di Dio e una premurosa attenzione nell'accorrere per manifestare ogni possibile carità, che Benedetto esprime con questa frase: «Appena viene annunciato l’arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore» e in seguito «gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità». Questa paro la “umanità” è luce per tutte le relazioni umane e porta a essere attenti e rigettare ogni esclusione e parzialità, perché la qualità della relazione indica la qualità della persona.


Cesare Falletti
NP maggio 2024 

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